A mia madre
Chiudere fuori la notte, la morte
e continuare.
La stanza buia nella casa
ha l’odore dei vivi di qualche anno fa.
Non ha perso l’odore dei morti di oggi.
Puoi ritrovarti coi vivi a parlare dei morti,
anche senza parlarne, e domandare cosa chiedi
alla loro assenza.
Vuoi solo giocare con le parole,
o cerchi qualcosa che non possono dirti?
Sondare per te l’abisso silenzioso
del loro rifiuto.
Pregare per te e per il loro vuoto:
ascoltando il rumore dell’assenza,
senza piangere…
Casale Monferrato, 6 dicembre 1979
Stanco e sempre più raffreddato
Mi siedo in questo ufficio:
Caserma Nino Bixio, Casale Monferrato,
come tanti prima di me.
Sole che nasce all’orizzonte,
gradi tre, fanti presenti nell’ufficio tre:
le solite mattine casalesi, e sono ormai
due mesi che sono lontano da te.
Casale Monferrato, 15.4.1980
Ancora gli odori e i colori
di questa primavera
e i brusii degli uccelli
mi richiamano alla vita…
Il mio corpo infantile
è in balìa di altre muffe,
piogge, asfalti bituminosi.
Sulla collina eocenica
o tra le stoppie
del Monte Crocione,
scivola verso il basso,
per raggiungere
chi dorme per sempre
nel buco di Erbonne,
nella bella e nella brutta stagione,
sotto l’erba o la neve,
oltre il muro bianco
illuminato per l’ultima
volta dall’Enel.
La sorgente nell’incavo
delle cascine diroccate
è ancora una certezza
per i vivi di Erbonne:
una meta irraggiungibile
per me, che ascolto
il rumore di un’altra
primavera dalla caserma
lontana oltre il Po,
aspettando la pioggia.
La mia giornata si guarda
di continuo l’ombelico,
chiedendosi: “Che tte frega?”,
mentre l’uniforme grigioverde
mummifica il mio corpo.
Sono qui e a Erbonne,
nella fortezza diroccata sul Po,
e nell’incavo delle cascine
a raccogliere acqua
con la coppa delle mani,
per portarne un po’ ai morti.
Casale Monferrato, 21.4.1980
Qui a Casale si sta
come in ospedale:
pochi e radi nei festivi,
ammucchiati nei feriali
come fossimo animali…
Alle sette c’è la sveglia
alle otto l’adunata:
poi la solita giornata
senza tempo e senza data.
La nostra voglia
di ricominciare
a contare i giorni
di una vita normale
ci porta a credere
che morte è questa
e vita l’altra,
appena sfiorata
da una licenza
o una scappata a casa…
Nei momenti
di tranquillità
si sta come all’oratorio
di paese, con il pallone,
il cielo azzurro
e l’occhio vigile
del prete maresciallo
che fa attenzione
che tu non freghi un’ostia.
Credere che fuori
tutto è più bello
e ricomincerà,
è solo un malinteso
senso della realtà.
Milano, 26.4.1980
Unicum (A Reza Palhavi)
Sono solo come un re di Persia,
che ha perso la mamma e il trono
nella terra dov’è nato
e si chiede:
“Che cazzo faccio adesso?”…
I consiglieri pagati
sono fuggiti e il Paese
in rivolta non lo riconosce più
nel ruolo di Padre.
“Allora, mio caro, non ti rimangono
che i denti finti e i capelli tinti,
con i lumini dei colombai
nelle notti senza luna”…
Il mio ruolo non si è esaurito
ancora, perché dichiarare forfait ora?
Impetrare uno sguardo pietoso
o una lacrima al passante frettoloso,
spiegando che tutto è finito
per una storia d’amore.
Con che coraggio guardare in faccia
il Creatore, e dirgli: non farmi morire
tra le braccia di un televisore
in bianco e nero, senza
un briciolo di colore, aspettando
la telefonata che non arriva
dalla banca svizzera
dove ho depositato tutti
i miei risparmi, il liquido,
la grana nera del deserto.
Perché continuare a fingere
quando la solitudine mi stringe
l’imbocco dello stomaco
e blocca la digestione come un cancro,
mentre tutti imitano
il mio way of life,
girando dal Messico a Parigi,
tra Saint Moritz e Il Cairo?
Da piccolo era bello, perché
la stupidità del mondo
e il suo egoismo non
mi apparivano così chiari,
attraverso il velo indistinto
della pietà amorosa dei genitori.
Credevo allora che l’uomo
è buono per un difetto d’immagine.
Ma cosa torno a fare oggi nel mio Paese,
dove nessuno mi cerca o ha bisogno di me?
Con questa mia facciona grande
E gli occhi chiari azzurri,
dietro agli occhiali scuri,
le spalle larghe, il corpo pesante,
la testa sempre meno pensante,
scomodo se incontrato spesso –
tenuto il più possibile a distanza
da chi lo conosce bene,
da chi non lo conosce più –
non so proprio cosa fare,
come muovermi e dove andare,
senza aiuto nelle mie difficoltose
operazioni di spostamento
sulla faccia della terra.
A cosa assomiglia questo letargo
nella stanza chiusa con le persiane abbassate?
Per anni le stesse carte: l’Eremita,
l’Impiccato, la Torre, il Bagatto…
A una banca che non telefona,
al silenzio di una donna,
alla televisione accesa
con qualcuno davanti,
al letargo di chi aspetta la morte
e non s’aspetta più niente dalla vita.
Casale Monferrato, 13.5.1980
Il Boom
Per un momento il vento della sera
ha restituito ai palazzi la lucidità del Boom.
Ci ho visto chiaro nel sistema:
il Bar Lory, la gabbia dei canarini,
le luci accese nei salotti buoni,
abitati ancora da genitori giovani e sicuri,
lasciano sul pavimento un bambino
solo, con le sue biglie di vetro.
Sorride nello specchio un po’ curioso e sa
che non ripeterà l’errore del genitore.
Nelle risaie al chiaro della Luna
aspetta una risposta al mondo che lo incula.
“Dio mio, che brutta fine,
finire in ospedale per amore!”.
Eppure nella luce del mattino
le risaie a specchio raccolgono
insieme al riflesso del cielo e delle nubi
il vuoto di un passato coi genitori buoni.
“Che fai lassù, con quel bambino in mano?
Buttalo, buttalo, non ci pensare…
Un’altra mamma saprà figliare!”.
Mi fanno una rabbia le robinie della caserma:
non posso accelerare il loro verde,
non posso comandargli: “Più verde! Sveltitevi col verde!”.
Posso solo stare lì a guardare
la loro stitichezza e la mia, nonostante l’età giovane
e i ripetuti innesti facciano sperare
ancora in un miglioramento.
Queste caserme basse e il rumore della campagna
che assedia il paese uccidono l’uccello nel suo nido,
gazza, merlo o fringuello, povero anello
di una catena alimentare
che va dall’uno all’altro circolo polare.
“Siamo ancora noi, i rondoni,
striduli nel cielo che s’imbruna,
liberi di flirtare con la Luna,
soltanto dopo l’ammainabandiera”.
Non troppo forte il pio pio,
schivando i pioppi potenziali
tra una picchiata e un pianto lungo,
sui fili del telefono, nell’aria buia e umida di sera.
Casale Monferrato, 1.6.1980
Quinto turno di PAO
Ci guarderemo in silenzio
dormire nei nostri loculi,
sotto il cielo stellato,
correndo veloci sulle risaie,
sfiorando un’ultima volta
il muro della caserma,
dopo il silenzio,
al quinto turno di PAO.
Il fucile bracciarm
e un soldato vicino
per fermare la Morte
che avanza sotto il porticato
col passo del lombrico.
Casale Monferrato, 8.6.1980
I miei genitori
Tra i responsabili
di questo pezzo di storia
c’è anche mio padre.
Posso giudicarlo adesso,
dall’astinenza coatta della caserma,
senza spargimento di sangue…
Con il suo lavoro ha costruito
le autostrade, le fabbriche,
e i palazzi del Boom.
E’ invecchiato con loro,
cercando sempre per sé
di accontentarsi.
Sua moglie cucinava e lavava,
puliva il bambino che si sporcava,
e lavorava anche lei, in silenzio, per il Boom.
La loro storia è dentro una storia nazionale
che gli storici chiamano senza sbagliare
borghese occidentale. I dati provano
– è naturale – che il benessere è cresciuto,
anche se loro si sono fatti annientare,
fino a scomparire.
Di mia madre è rimasto ben poco
nel cimitero di Brunello…
Di mio padre resteranno le arnie in giardino,
e un milione di latte in cantina
per chiuderci dentro le sue ceneri.
Milano, 13.6.1980
A militare ho imparato
il significato delle parole.
Se uno ti dice: “Morire, spina!”,
vuol dire che per te ci sono
ancora tante guardie e PAO
da fare dentro la caserma…
Se uno ti dice: “Borghese!”,
vuol dire che la donna, il letto,
l’odore del paese dove sei nato
riconquisterai tra poco,
come un’insperata libertà.
La Morte resterà in caserma,
tra quelli che rimangono
a ricordare le facce di quelli
che se ne vanno a casa.
E sembrerà un ricambio
troppo rapido, finché la Cittadella
di Alessandria non fermerà –
come in una stampa ingiallita – la giornata
afosa, con il cielo fermo e le rondini
bloccate sopra i muri.
L’orto incolto e silenzioso dentro
griderà la tua vita devastata
dal tempo, coi pochi frutti
ormai inselvatichiti e gli attrezzi
abbandonati tra le ortiche.
Casale Monferrato, 9.7.1980
Canto degli uccelli alla luce
Abbiamo cantato un’infinità di albe
in questo posto, senza ricordarlo,
sopra i rami del noce e dell’ippocastano,
aspettando che il sole tornasse a ridarci la vita.
Spesso i crepuscoli ci hanno ingannato
con la loro imitazione del mattino,
e molte rinascite abbiamo preso
per tramonti: ma l’importante era cantare.
Anche se i nostri figli non capiranno
i motivi di una scelta rinunciataria,
continueremo a credere le nostre voci
all’aria, senza disperare.
Casale Monferrato, 30 agosto 1980
Un momento di tregua.
Fuori la natura impazza
per l’ennesima primavera.
Ma nessuno s’imbarca più per le Crociate…
Tutto questo spreco di sole, di aria, di luce
per i vivi. E niente per i morti…
Un reato continuo ai danni dei morti,
alla faccia loro.
I vivi sono irriverenti come i bambini,
in queste cose. Non fingono,
non hanno mezzi termini:
accettano le profferte dell’ora,
sbattendosene dei morti.
Con i morti mi fermo un momento
nella stanza chiusa,
a interrogarmi sul mistero
occasionale della Resurrezione.
Milano, 10.9.1980
Congedo provvisorio
Sono stato bambino a Milano,
nel mattino della mia vita;
a Luino pescatore di persici ragazzino,
nell’acqua melmosa del lago Maggiore.
Liceale diligente a Milano
tornato nel Sessantanove,
giusto un anno dopo la Rivoluzione,-
tanto da non capire la lezione
dei katanga e delle molotov.
Turista povero in Scozia nei campi di lavoro,
in Francia e in Catalogna ai tempi
del dittatore Franco,
senza soffrire per la mancata libertà.
Studente modello all’Università,
consulente fantasma e mal pagato,
di una casa editrice scolastica.
Soldato posteggiato per un anno
a Casale Monferrato, caporale “canarino”
appena congedato: la mia storia
finora non vi può interessare.
Datemi del matto, se la vengo a raccontare.